Introduzione

  1. La moneta
  2. La produzione e il consumo
  3. Il capitale
  4. Il capitale e gli interessi
  5. Le leggi macroeconomiche
  6. Inflazione e disoccupazione
  7. La soluzione

 

Introduzione

Con l’aggravarsi delle crisi finanziarie e con il peggioramento continuo delle condizioni di vita cresce la sfiducia di gran parte della popolazione nelle istituzioni politico–economiche e negli economisti. La difesa di questi ultimi è sempre la stessa: è tutta colpa del mercato se le nostre previsioni si sono dimostrate sbagliate, se i nostri modelli si sono rivelati irrealistici. Il mercato, questo deus ex machina dai poteri illimitati, sarebbe in grado di sovvertire qualsiasi previsione, di modificare i comportamenti, di precipitare il sistema nel caos o di permetterne lo sviluppo a oltranza. Quando si tratta di definirlo, di spiegarne la natura e le leggi, gli economisti non trovano però di meglio della trita e ritrita legge della domanda e dell’offerta. È questa la legge che ha fatto la fortuna della scienza economica. Un concetto semplice, da scuola elementare, che tutti possono capire, ma che consente anche l’elaborazione di sofisticati modelli matematici che gli economisti possono sbandierare incutendo timore e rispetto nei non addetti ai lavori. Che questi modelli risultino poi inadeguati non è perché siano avulsi dalla realtà, ma perché il mercato ha impedito alla legge della domanda e dell’offerta di trovare applicazione secondo le ipotesi adottate inizialmente. Il dramma della scienza economica degli ultimi sessant’anni è tutto qui: ostinarsi a ritenere che l’analisi economica debba fondarsi sul comportamento e che l’infinita varietà e complessità dell’agire umano possa essere riprodotta riferendosi alla legge del mercato e facendo uso della matematica.

In tutti questi anni siamo stati sommersi da un numero impressionante di articoli e di libri nei quali alla grande sofisticazione dei modelli matematici fa riscontro una povertà concettuale sconcertante. Gli enunciati prettamente economici sono banali, ma ci si lascia impressionare dalla tecnica matematica che li circonda. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: gli economisti, abilissimi nel ‘dimostrare’ a posteriori di non aver commesso errori pur essendosi sbagliati nelle previsioni, rincorrono la realtà che gli sfugge continuamente di mano.

La maggioranza degli economisti è convinta che l’economia sia una scienza imparentata con quella fisica e con la matematica. Dalla prima si derivano i concetti (primo tra tutti quello di equilibrio tra forze di segno opposto), mentre la seconda fornisce gli strumenti tecnici per l’elaborazione dei modelli. Questa visione ha origine nei lavori del padre della teoria neoclassica: Walras. Tutta la teoria oggi dominante si rifà al quadro teorico dell’equilibrio economico generale e il convincimento che la microeconomia sia la base sulla quale va costruita la scienza economica è condiviso anche dai rappresentanti della scuola keynesiana. Insomma, gran parte degli economisti crede che la scienza economica debba partire dal comportamento degli agenti economici per arrivare a costruire modelli che lo riproducono il più fedelmente possibile. Il guaio è che se si riuscisse a elaborare un modello puntuale della realtà economica, la sua complessità sarebbe tale da renderlo inutilizzabile. Gli economisti convinti della priorità logica della microeconomia e della necessità di ricorrere alla matematica sono prigionieri di un’alternativa i due termini della quale sono altrettanto insoddisfacenti: (a) tentare di riprodurre la realtà il più fedelmente possibile, costruendo cioè un modello talmente complesso da rendere vana la ricerca di una soluzione univoca; (b) introdurre una serie di ipotesi semplificatrici che rendono il modello tecnicamente operativo, ma senza più nessun riscontro con la realtà.

L’analisi proposta dalla macroeconomia quantica si basa invece sul tentativo di fondare la teoria economica su basi macroeconomiche. Nella storia del pensiero economico, le origini di questa impostazione teorica risalgono agli autori classici, ma se ne possono trovare tracce già nell’analisi di Quesnay e dei fisiocrati. Più tardi sarà Keynes a proporre i primi elementi per lo sviluppo della macroeconomia moderna. Però l’autore che ha maggiormente contribuito all’elaborazione di un’analisi macroeconomica fondata su leggi macroeconomiche è Schmitt ed è la sua opera che fonda l’analisi quantica.

.

  1. La moneta

La centralità della moneta è l’elemento che caratterizza la macroeconomia moderna e che consente di distinguerla dai tentativi – neoclassici e keynesiani – di fondare la macroeconomia su basi microeconomiche. L’ignoranza che ancora oggi circonda la natura della moneta è sorprendente, così come è sorprendente che la teoria economica più diffusa nel mondo consideri la moneta come un’appendice irrilevante. Nella teoria walrasiana dell’equilibrio economico generale, la moneta non svolge alcun ruolo sostanziale ed è ricondotta alla nozione di merce-numerario, ossia identificata a una merce alla quale viene arbitrariamente affidato il ruolo di unità di conto. I prezzi che contano nei modelli neoclassici sono quelli relativi, ai quali i prezzi monetari devono adeguarsi nel rispetto del postulato di omogeneità. La moneta può tutt’al più rappresentare un elemento di disturbo in un sistema che è comunque fondato sul principio della neutralità della moneta. Eppure un semplice sguardo alla realtà dovrebbe bastare per rendersi conto che tutti i nostri sistemi economici sono monetari, che tutti i concetti economici sono monetari e che tutte le patologie sono di natura monetaria. Nello stesso modo, dovrebbe essere chiaro a ogni osservatore della realtà economica che la moneta è d’origine bancaria. Ricordare i tempi nei quali si usavano conchiglie o metalli preziosi per rappresentare la moneta è anacronistico e fuorviante. In ogni caso, la moneta non va identificata con ciò che viene usato per rappresentarla e oggi è universalmente riconosciuto che l’emissione monetaria non richiede alcuna riserva aurea.

.

1.1 La natura della moneta bancaria

Per capire le leggi che fondano i nostri sistemi economici bisogna fare chiarezza su quale sia la vera natura della moneta bancaria. Keynes l’aveva intuito e in tutte le sue opere la moneta svolge un ruolo centrale. Malgrado ambisse a proporre una teoria monetaria della produzione, l’autore cantabrigense non riuscì però a svelare interamente il mistero della creazione della moneta e della sua integrazione ai prodotti. La chiave di volta risiede nel principio della contabilità a partita doppia. Questo principio stabilisce la necessaria uguaglianza tra debiti e crediti, tra dare e avere. Ma di quali debiti e di quali crediti si tratta? La risposta che sembra scontata è che, siccome ogni transazione economica implica perlomeno la presenza di due agenti, il debito sia dell’acquirente, mentre il credito del venditore. A ben vedere però, questa interpretazione riguarda la partita semplice e non la partita doppia. Non bisogna infatti dimenticare che la contabilità è resa possibile dall’esistenza dei numeri negativi e dalla scoperta che ± x = 0. Addebito e accredito devono formare una coppia il cui risultato algebrico è zero. Ciò accade soltanto se addebito e accredito riguardano la stessa persona. L’acquirente deve essere nel contempo addebitato e accreditato e la stessa cosa deve avvenire per il venditore. È proprio perché la creazione di moneta da parte delle banche è sempre accompagnata da una distruzione equivalente che l’emissione monetaria non rientra nella categoria metafisica dei miracoli. Il pagamento di B da parte di A avviene mediante il simultaneo accredito e addebito in moneta di A e di B. Se ne deduce che la moneta non è l’oggetto del pagamento di B da parte di A, ma il semplice strumento – o meglio ancora il flusso – che consente ad A di pagare B.

.

1.2 Moneta e valore

La moneta è al tempo stesso il concetto più importante e il più incompreso della scienza economica. Gli economisti passano allegramente da una definizione della moneta all’altra, incuranti delle contraddizioni nelle quali rischiano di cadere. La moneta viene talvolta identificata a una merce, talaltra a un semplice velo o, ancora, a un attivo emesso dalla banca centrale. L’idea che la moneta sia una merce è talmente lontana dalla realtà da dover essere abbandonata senza ulteriori discussioni. Ma allora perché molti economisti esitano a farlo? Perché cadono nell’errore ancora molto diffuso di identificare la moneta e il valore della moneta. La stragrande maggioranza degli economisti non pensa alla moneta come a una forma numerica, a un ‘veicolo’ o a un flusso, ma la considera un attivo e, siccome le merci sono gli attivi economici per eccellenza, ritiene giustificato concepirla come una merce. Il punto è che la moneta è bancaria e che l’emissione di moneta da parte delle banche non è paragonabile a una produzione di merci. Le banche emettono moneta utilizzando la contabilità a partita doppia e con un costo irrilevante. Se alla moneta non fossero associati i prodotti, la sua emissione darebbe sempre zero come risultato e non si potrebbe certo parlare del suo valore. Ciò significa che il valore della moneta si identifica con il reddito, risultato dell’integrazione del prodotto nella moneta.

.

1.3 Moneta e credito

La moneta è la chiave d’accesso al mondo dell’economia. Per poterne disporre bisogna capire qual è la sua vera natura e quali sono le leggi alle quali deve sottostare. L’analisi proposta dalle teorie imperanti  non ci è di grande aiuto al riguardo. I concetti più interessanti sono quelli di ‘forma–valore’, elaborato da Marx, e di ‘numerario’, formulato da Walras, ma nessuno ha saputo svelare il mistero della moneta e del suo rapporto con i prodotti. Keynes stesso non è riuscito in questo intento e si è limitato a proporre una classificazione dei vari tipi di moneta a partire dalle loro funzioni e dalle loro forme (Capitolo I del Treatise on Money). Ciò che ancora manca a tutti questi autori è la chiara percezione della sostanziale differenza esistente tra moneta e reddito. Già i Classici distinguevano tra money e money’s worth, tra moneta nominale e moneta reale. Questa intuizione non è però stata approfondita a sufficienza ed è ancora diffusa l’idea che l’emissione di moneta si identifica a un’erogazione di credito.

La moneta è emessa dalle banche ogni volta che effettuano un pagamento per conto dei loro clienti. Il concetto di moneta–flusso denota l’uso della moneta come mezzo di pagamento, come veicolo numerico che consente il simultaneo accredito e addebito di chi viene pagato e di chi paga. Le banche, con la contabilità a partita doppia, mettono questo ‘strumento’ numerico a disposizione dell’economia, ma non sono loro ad attribuirgli un contenuto reale o un potere liberatorio. Le banche creano e distruggono moneta, ma con ciò non creano reddito. Se la moneta emessa ha potere liberatorio, se i pagamenti implicano la creazione, la distruzione o il trasferimento di un reddito non è perché le banche hanno la facoltà di creare attivi netti e di prestarli ai loro clienti. L’erogazione di un credito presuppone l’esistenza di un reddito e il reddito può nascere solo dalla produzione. Le banche forniscono il contenitore numerico necessario per attribuire un denominatore comune ai prodotti, ma sono i lavoratori a provvedere al contenuto reale che permette il passaggio dalla moneta al reddito.

.

  1. La produzione e il consumo

L’analisi quantica introduce una distinzione rigorosa tra aspetti fisici e aspetti economici e dimostra come la natura contabile della moneta bancaria imponga una concezione della produzione e del consumo che prescinde da considerazioni di tipo fisico. Il mondo dell’economia ha natura e leggi proprie che non possono essere derivate da altre scienze. Per entrare in questo mondo bisogna disporre dei concetti adeguati e, in particolare, occorre rendersi conto che l’economia è il regno delle grandezze a-dimensionali. Questo non significa che i processi economici non possano venir considerati anche da altri punti di vista o che non ci si debba occupare di argomenti inerenti la scelta dei modelli di sviluppo (equo, sostenibile, etico) e di crescita. Ciò che è necessario capire è che i problemi di politica economica possono essere affrontati solo dopo aver determinato la natura del sistema economico e dopo averne scoperte le leggi. Produzione e consumo non fanno eccezione ed è fondamentale capire che la loro definizione economica nulla ha a che fare con quella fisica.

.

2.1 La produzione come creazione

La produzione economica è l’atto che permette di attribuire una forma numerica ai beni fisici e di trasformarli in prodotti economici. Affinché beni e servizi acquistino forma numerica è necessario che vengano associati o ‘integrati’ alla moneta bancaria che, per sua stessa natura, è un puro contenitore numerico privo di qualsiasi valore intrinseco. Se la moneta bancaria non esistesse, la produzione economica non potrebbe essere espressa numericamente. Produrre significa attribuire una nuova forma–utilità a materia o energia e in questo senso la produzione economica ha luogo anche in assenza di moneta. Senza moneta le nuove forme–utilità non potrebbero però essere espresse in un’unità di misura comune e la costruzione di un vero sistema economico risulterebbe impossibile. Grazie alla moneta, la forma–utilità acquista il carattere di forma numerica e i prodotti ai quali è associata diventano commensurabili. D’altra parte, in assenza di produzione la moneta bancaria rimarrebbe priva d’oggetto e la sua emissione non avrebbe alcuna ragion d’essere. È la produzione che rende significativa l’emissione di moneta bancaria e in questo senso è corretto sostenere che la produzione è una creazione di moneta.

Perché i beni fisici ‘entrino’ nella moneta e acquistino la forma numerica che li trasforma in prodotti economici, non occorre che un istante. La produzione economica ha luogo quando vengono pagati i salari. Mentre il processo fisico di trasformazione di materia o energia si svolge su un arco di tempo positivo – per esempio un mese – la produzione è un evento istantaneo.

.

2.2 La produzione e il tempo

Per la maggioranza degli economisti, la produzione è una funzione dei cosiddetti ‘fattori della produzione’ e del tempo. Il prodotto è considerato il risultato dell’applicazione dell’attività produttiva in un certo lasso di tempo ed è calcolato come l’integrale della funzione di produzione in questo intervallo di tempo. Nonostante le differenze tra i vari modelli proposti, ciò che li accomuna è l’idea che la produzione sia funzione del tempo e che produzioni successive siano funzionalmente correlate. Secondo la teoria quantica, invece, la produzione è una creazione. La differenza è sostanziale. Nelle teorie dominanti non c’è posto per i concetti di creazione e di distruzione; la teoria quantica è fondata su di essi. Le teorie dominanti non fanno alcun riferimento alle operazioni istantanee; la teoria delle emissioni si sviluppa attorno alle operazioni di pagamento, istantanee per loro stessa natura. Nella teoria proposta da Schmitt, produzione (creazione) e consumo (distruzione) sono le due fasi complementari di un’unica emissione. Per creare reddito bisogna produrre, ossia dare forma numerica a beni e servizi integrandoli nella moneta. Al momento del consumo (acquisto finale) beni e servizi abbandonano la loro forma numerica e il reddito viene distrutto. Per le teorie dominanti, al contrario, il reddito non è mai distrutto. La spesa lo riproduce, creando un legame tra redditi di periodi successivi.

La teoria delle emissioni dimostra che la produzione si identifica con l’emissione di un periodo finito e insecabile di tempo. Se il pagamento dei salari avviene a fine mese, il mese di lavorazione che porta al prodotto finale è emesso come un quanto di tempo. Il prodotto economico vero e proprio è quindi il risultato di un’operazione istantanea nella quale il mese è percorso in un movimento ondulatorio, un va e vieni che attribuisce al mese un’identità economica espressa numericamente mediante i salari. Il prodotto è un quanto di tempo emesso sotto forma monetaria.

.

2.3 L’unità di produzione e consumo

Il consumo è la seconda parte dell’emissione quantica definita dall’unità produzione–consumo. La produzione crea un reddito che viene distrutto dal consumo, dove per consumo non si intende il degrado fisico del prodotto, ma il suo acquisto finale. Consumare significa acquistare il prodotto, liberarlo dalla sua forma numerica restituendolo alla sua forma iniziale di valore d’uso. Come la creazione, anche la distruzione di reddito modifica la situazione dell’insieme: all’arricchimento in valori d’uso fa eco un impoverimento in reddito. Siccome l’elemento determinante è il reddito, risulta chiaro che anche nel caso del consumo siamo confrontati a un’operazione macroeconomica.

Produzione e consumo sono due operazioni macroeconomiche di segno opposto che rappresentano le due facce di un’unica realtà. In effetti, pur separati cronologicamente, produzione e consumo sono i termini di un’identità. La conciliazione tra l’identità, che richiede la simultaneità, e la separazione cronologica è permessa dalla teoria quantica. Il consumo definisce l’emissione dello stesso quanto di tempo definito dalla produzione. Il pagamento del salario per un mese di lavoro si identifica alla creazione di un reddito che ci consente di attribuire un’espressione numerica al mese e di emetterlo come ‘quanto di tempo’. La spesa finale di quello stesso reddito ne comporta la distruzione e definisce l’emissione dello stesso mese, dello stesso quanto di tempo. Ne consegue che produzione e consumo hanno la stessa ‘dimensione’ quantica, ossia coincidono nel tempo quantico. Ogni contraddizione è evitata grazie all’analisi quantica: produzione e consumo coincidono (nel tempo quantico), pur avvenendo in tempi cronologicamente diversi.

.

  1. Il capitale

Il concetto di capitale è intimamente legato a quello del tempo. Il reddito è trasformato in capitale perché il consumo non coincide cronologicamente con la formazione del reddito ed è perché il capitale perdura nel tempo che la determinazione del valore delle merci deve tener conto della sua remunerazione.

Nessuna delle teorie avanzate dagli autori che abbiamo brevemente citato soddisfa per intero i requisiti necessari per incorporare il tempo nell’analisi del capitale. Keynes è l’autore che più si avvicina alla formulazione di una teoria del capitale-tempo. Anche la sua analisi, però, non basta a definire in modo preciso la natura temporale della produzione e il passaggio dal reddito al capitale. È vero che l’identità tra offerta globale (R) e domanda globale (C + I) suggerisce l’idea della simultaneità tra produzione e consumo, ma non è dato sapere come queste due operazioni possano coincidere pur essendo cronologicamente distinte. D’altronde, nulla è detto sulle ragioni profonde che fanno del capitale il ponte tra presente e futuro. L’intuizione secondo cui il reddito è conservato nel tempo sotto forma di capitale, non è approfondita come merita di esserlo e la natura stessa del capitale nella sua relazione con il tempo rimane in gran parte misteriosa. Questo mistero è chiarito soltanto con lo sviluppo della teoria quantica della produzione, sola capace di spiegare la formazione di un capitale netto o macroeconomico.

.

3.1 Il capitale-tempo

Identificandosi con la monetizzazione dei beni e servizi prodotti e, dunque, con il pagamento dei salari, la produzione ha come risultato la formazione di un reddito che prende subito l’aspetto di un deposito bancario. La moneta è un flusso, la cui speranza di vita non va al di là dell’istante in cui avvengono i pagamenti. Essa è presente nel pagamento dei salari e scompare subito per lasciar posto a un deposito bancario di cui i salariati sono accreditati senza soluzione di continuità. L’operazione monetaria è così sostituita da un’operazione finanziaria – l’acquisto di titoli corrispondenti ai depositi bancari – che porta alla trasformazione del reddito in capitale.

Nel rispetto dei principi della contabilità a partita doppia, il reddito è subito prestato alle aziende, che se ne servono per coprire i costi di produzione generati dal pagamento dei salari. Il reddito è risparmiato, depositato, prestato e speso nell’istante preciso della sua formazione. La trasformazione iniziale del reddito in capitale porta contemporaneamente alla formazione di uno stock – dovuto all’investimento del capitale – e di un debito finanziario delle aziende nei confronti dei lavoratori.

La prima forma di capitale è dovuta al trascorrere del tempo, al fatto che, formato al momento del pagamento dei salari, il reddito verrà speso e distrutto solo più tardi. Il reddito è trasformato in capitale tra l’istante della sua formazione e quello della sua spesa finale e può dunque essere definito come capitale-tempo. Il periodo di tempo cronologico che separa produzione e consumo è quello durante il quale il reddito è conservato sotto forma di capitale, quello con il quale il capitale-tempo si identifica. Appena creato, il reddito abbandona la sua forma monetaria per rivestire quella di capitale, sola forma capace di gettare un ponte tra il presente e il futuro. La formazione iniziale dello stock di beni di cui dispongono le aziende non avviene mediante la spesa finale del reddito prestato dai lavoratori, ma attraverso il suo investimento, operazione che coincide con la trasformazione dello stesso reddito in capitale. Quest’ultimo verrà annullato più tardi, quando i lavoratori decideranno di spendere ciò che avevano risparmiato in precedenza; e lo stesso capitale lascerà di nuovo il posto al reddito. La spesa finale del reddito da parte dei lavoratori (o, più generalmente, dei suoi titolari finali) porterà alla sua definitiva distruzione e all’annullamento dei titoli di debito delle aziende.

.

3.2 Il capitale fisso

Il risparmio è il punto di partenza del processo di accumulazione del capitale. Il risparmio necessario per la produzione del capitale strumentale prende poi la forma del profitto (realizzato e anticipato) poiché è alle aziende che spetta l’organizzazione dell’intera produzione, beni-capitale inclusi. L’investimento che porta alla formazione del capitale fisso è finanziato dal risparmio e, dunque, dai profitti netti delle aziende – differenza tra i profitti lordi e quelli distribuiti in interessi, rendite e dividendi – e dai risparmi prestati loro dai consumatori. I risparmi prestati alle aziende non sono però altro che profitti anticipati, per cui è perfettamente lecito considerare l’investimento del profitto come l’unica operazione richiesta per la formazione del capitale fisso. Ogni nuova produzione di beni-capitale richiede l’investimento di una somma equivalente di reddito che, proprio perché porta alla formazione di un capitale fisso, è sottratta al consumo e definisce l’ammontare del risparmio macroeconomico. Partiamo dalla produzione e supponiamo che essa si identifichi con l’emissione di 100 unità di salario. Se, spendendo la totalità del loro reddito, i lavoratori ottengono beni di consumo per un valore di 80 unità di salario, il profitto realizzato dalle aziende è di 20 unità. Il capitale-tempo formatosi all’inizio – pari a 100 unità di salario – è così distrutto (consumato) nella misura dell’ottanta per cento. Le rimanenti 20 unità di capitale-tempo definiscono titoli finanziari di cui le aziende sono ora le proprietarie e uno stock di beni reali che ne rappresentano l’oggetto.

Supponiamo, per motivi prettamente didattici, che l’investimento del profitto avvenga nel periodo seguente a quello della sua formazione. Formatosi in p0, il profitto è dapprima costituito da un capitale finanziario e da un corrispondente stock di beni di consumo. Nel periodo successivo, p1, il profitto è investito e lo stock iniziale trasformato in beni-capitale. L’investimento del profitto ha un senso univoco: esso definisce il finanziamento della produzione del capitale strumentale. In p1 i lavoratori dedicano parte del loro tempo alla produzione di beni strumentali e il loro salario è finanziato dal profitto realizzato dalle aziende in p0. Supponendo che il livello dell’impiego e della retribuzione rimangano invariati, i lavoratori ottengono ancora 100 unità di salario, di cui 80 unità per la produzione di beni di consumo e 20 unità per quella di beni-capitale. Se trascuriamo la formazione di nuovi profitti – ciò che riprodurrebbe semplicemente la situazione di p0 – possiamo costatare senza difficoltà che i consumatori dispongono delle unità di salario sufficienti per acquistare sia la nuova produzione di beni di consumo (80 unità), sia quella parte della produzione di p0 che si era formata come stock (20 unità). La nuova produzione di beni-capitale, del valore di 20 unità di salario, è invece acquistata dalle aziende attraverso la spesa del profitto effettuata, investendolo, sul mercato del lavoro.

Se i lavoratori fossero stati impiegati a produrre solo beni di consumo in entrambi i periodi, l’ammontare di tali beni avrebbe raggiunto le 200 unità di salario. La produzione di capitale fisso riduce quella di beni di consumo a 180 unità di salario. È quindi necessario un sacrificio pari a 20 unità (in valore) di beni di consumo per ottenere beni strumentali di un valore di 20 unità di salario. Il risparmio macroeconomico, che corrisponde all’investimento del profitto, ha precisamente questo significato e definisce la definitiva sostituzione di una parte del reddito con un capitale equivalente. La produzione di beni strumentali diminuisce sia la produzione di beni di consumo, sia il reddito disponibile per il loro acquisto. La differenza tra il reddito totale creato dalle due produzioni, 200 unità di salario, e quello speso per l’acquisto finale dei beni di consumo, 180 unità di salario, corrisponde al profitto investito nella produzione di beni strumentali e trasformato in capitale fisso. Spendendo 100 unità di salario in p0 i titolari di reddito ottengono beni di consumo del valore di 80 unità di salario. La spesa finale di reddito è dunque di sole 80 unità, le rimanenti 20 essendo trasferite alle aziende e subito trasformate in capitale-tempo. In p1, le aziende spendono il loro profitto nella produzione di beni strumentali, mentre i lavoratori pagati per tale produzione spendono i loro salari nell’acquisto dei beni di consumo rimasti invenduti in p0  La produzione di beni strumentali che avviene attraverso l’investimento del profitto dà luogo a una vera e propria conversione dello stock di beni di consumo creato in p0 in uno stock di beni-capitale.

.

  1. Il capitale e gli interessi

Che cos’è l’interesse? Perché viene pagato? Perché il suo tasso varia da un Paese all’altro, da una regione all’altra? Queste domande trovano ancora oggi soltanto un abbozzo di risposta. La maggioranza degli economisti ha ormai rinunciato ad approfondire l’indagine sulla natura dell’interesse, limitandosi a interrogarsi sulle cause delle variazioni del suo tasso. Tale procedimento sarebbe esente da critiche solo se l’origine e la natura dell’interesse fossero un problema risolto. Uno sguardo alle soluzioni finora proposte dalle teorie dominanti è però sufficiente per scartare questa ipotesi, le sostanziali differenze tra le varie analisi essendo sintomatiche del mistero che ancora avvolge la questione.

.

4.1 L’interesse come reddito microeconomico

L’analisi della moneta bancaria dimostra che, al momento stesso della sua formazione il reddito è speso dai suoi titolari iniziali per l’acquisto delle obbligazioni finanziarie emesse dalle banche in cui il reddito è depositato. Il reddito risparmiato è quindi sempre uguale a quello investito nell’acquisto di titoli di deposito. Siccome i titoli di deposito hanno come oggetto le merci prodotte dalle aziende, il risparmio iniziale definisce l’acquisto della produzione da parte delle aziende e la formazione di uno stock di beni reali cui corrisponde il capitale-tempo generato dalla trasformazione del reddito. Il capitale-tempo è il prodotto di un’operazione istantanea in cui il risparmio è inizialmente investito nell’acquisto dei beni prodotti. Parte del reddito risparmiato e trasformato in capitale-tempo è in seguito speso per l’acquisto finale di beni di consumo. Ciò significa che parte del capitale è ritrasformata in reddito e distrutta sul mercato dei prodotti. Se consideriamo solo il capitale-tempo e le operazioni di prestito che lo concernono ci troviamo di fronte a operazioni a somma nulla (ciò che è prestato dagli uni è ottenuto in prestito dagli altri) che definiscono quindi un risparmio microeconomico. L’interesse che si manifesta in queste transazioni non è legato alla formazione di nessun nuovo reddito macroeconomico e può essere interamente spiegato come un semplice fenomeno di ridistribuzione. Il debitore, al momento del rimborso, dovrà versare al creditore un ammontare maggiore di quello ricevuto in prestito. Il semplice trascorrere del tempo, se dissociato dall’attività produttiva, non può generare nuovo valore. Questo significa soltanto che, alla presenza di un tasso d’interesse positivo, il produttore della merce dovrà includerlo nel prezzo di vendita, ottenendo dall’acquirente quella somma supplementare ch’egli deve versare come interesse ai titolari iniziali del suo capitale circolante.

.

4.2. L’interesse come reddito macroeconomico

L’interesse nasce dalla definitiva capitalizzazione del risparmio. La parte del reddito non consumata e fissata nell’apparecchio produttivo è in un certo senso restituita alla comunità sotto forma d’interessi, che rappresentano quindi una nuova produzione di valore destinata a compensare quella definitivamente persa nel capitale. La produttività in valore del capitale non va intesa in senso letterale (non è il capitale a creare valore), bensì come un processo che porta alla sostituzione del reddito sottratto per sempre alla comunità (risparmio macroeconomico) con un nuovo valore prodotto dalla stessa comunità come indennizzo per l’investimento del risparmio nell’apparecchio produttivo. La giustificazione profonda di un interesse positivo è dunque da ricercare nel processo di capitalizzazione. Una volta dimostrato che la domanda di risparmio esercitata dal sistema produttivo è netta diventa poi possibile ventilare l’interesse sulla base dell’aggiustamento tra domanda e offerta, coinvolgendo anche le transazioni aventi come oggetto il risparmio microeconomico (a somma nulla). Se il risparmio macroeconomico (ossia quello che si fissa nella produzione di beni capitale) dà diritto a una retribuzione positiva (interessi), allora anche quello microeconomico andrà retribuito nello stesso modo, se si vuole indurre i titolari di reddito a risparmiarne una parte anche a favore di coloro che intendono aumentare il loro consumo presente a scapito di quello futuro.

.

  1. Le leggi macroeconomiche

Le leggi macroeconomiche sono leggi logiche (e non comportamentali) e come tali perlomeno altrettanto rigorose ed esatte delle leggi fisiche e matematiche. Alla base di queste leggi troviamo principi logici derivati dalla natura stessa della moneta, del reddito e del capitale. Le regole della contabilità a partita doppia sono le medesime ovunque e non dipendono dal tipo di operazione alle quali si applicano. Nello stesso modo, il reddito e il capitale non sono concetti a definizione variabile. La formazione del reddito risponde a criteri rigorosi e oggettivi e lo stesso vale per il capitale. Le leggi macroeconomiche possono essere formulate grazie all’analisi di questi criteri e costituiscono i principi ai quali ogni sistema economico fondato sull’uso della moneta bancaria deve sottostare.

.

5.1 La legge degli acquisti-vendite

Questa legge deriva direttamente dal principio della contabilità a partita doppia e stabilisce l’uguaglianza necessaria tra gli acquisti e le vendite di ogni agente economico. La vera contabilità a partita doppia impone il simultaneo addebito e accredito di ogni agente implicato in una transazione economica. Trasposto in termini di acquisti e di vendite, ogni addebito definisce un acquisto e ogni accredito una vendita. Per finanziare i suoi acquisti sul mercato dei prodotti, l’acquirente deve disporre di un reddito del quale verrà addebitato. Tre sole alternative gli sono offerte: (a) vendere la sua attività lavorativa sul mercato dei servizi produttori; (b) indebitarsi vendendo titoli sul mercato finanziario o (c) cedere i propri depositi bancari, ossia vendere titoli a depositi bancari formati in precedenza. Ognuna di queste alternative comporta una vendita e, quindi, l’accredito dell’agente che acquista sul mercato dei prodotti. Solo il caso (c) sembra però rispettare la simultaneità tra la vendita di titoli e l’acquisto di prodotti. In realtà, la simultaneità tra acquisti e vendite è rispettata in tutti i casi, perché se la remunerazione dell’attività produttiva o l’ottenimento di un prestito avvengono prima dell’acquisto dei prodotti, il reddito così ottenuto è subito depositato, ciò che equivale a un acquisto di titoli a depositi bancari. Il successivo acquisto di prodotti implicherà la vendita dei titoli a tali depositi bancari, a riprova del fatto che non vi può essere acquisto senza vendita e viceversa.

La legge degli acquisti–vendite è un corollario della partita doppia ed è consona alla natura veicolare della moneta. Un mezzo di pagamento non può assurgere a oggetto del pagamento che convoglia. La moneta ha un valore positivo solo se è provvista di un contenuto reale che le è attribuito dalla produzione. Anche in questo caso, però, l’oggetto del pagamento non è la moneta, bensì i beni reali ai quali è associata. Affinché il pagamento sia effettivo bisogna che colui che acquista beni e servizi disponga di un reddito, il che è possibile solo se vende sul mercato dei servizi produttori o su quello finanziario. La moneta interviene in qualità di flusso, per veicolare il pagamento da un agente all’altro. Grazie alla moneta, il venditore di beni e servizi è accreditato di un certo ammontare di reddito. La moneta–flusso è un semplice intermediario e come tale deve subito rifluire al suo punto d’emissione. Ciò vuol dire che il nostro venditore è al tempo stesso accreditato e addebitato di una somma di moneta. Siccome la moneta veicola il reddito, il suo riflusso in banca comporta anche quello del reddito, che è subito costituito come deposito e trasformato in capitale. Il venditore di beni e servizi è così nel contempo un acquirente di titoli a depositi bancari.

.

5.2 La legge dell’identità tra domanda globale e offerta globale

La determinazione delle leggi macroeconomiche mette in evidenza un’importante diversità tra le teorie economiche dominanti e quella quantica. Sia la teoria neoclassica, sia quella keynesiana si fondano sul concetto di equilibrio, mentre quella quantica è costruita attorno al concetto di identità. Tutte le leggi macroeconomiche sono leggi logiche o esatte proprio perché sono identità. Affermare che la relazione di uguaglianza tra la domanda globale e l’offerta globale è un’identità significa sostenere che i suoi due termini si definiscono l’un l’altro. Nessuno dei due può variare rispetto all’altro, perché rappresentano le due facce di un’unica realtà. Il comportamento non svolge alcun ruolo nella determinazione di queste leggi, la cui validità non è contingente. L’identità tra domanda globale e offerta globale è una necessità logica che deriva dalla definizione analitica dei due termini. Vi è identità tra di loro perché la domanda globale è definita dall’ammontare di reddito disponibile, mentre l’offerta globale è definita dal prodotto globale, ovvero dal reddito creato dalla produzione. Non si tratta di definizioni nominali, ma sostanziali e la relazione d’identità che ne deriva non ha nulla di ipotetico o di provvisorio.

.

  1. Inflazione e disoccupazione

Le leggi macroeconomiche sono riconducibili alle relazioni logiche esistenti tra moneta, reddito e capitale e si rifanno alla natura logica o ordinata dei nostri sistemi economici. Ciò non significa che i meccanismi contabili applicati dalle banche siano per forza di cose in armonia con queste leggi. Il modo in cui oggi vengono registrate le operazioni contabili inerenti alla moneta, al reddito e al capitale non è sempre compatibile con quanto imposto dalle leggi macroeconomiche. In caso di divergenza o conflitto tra leggi e pratica contabile sono le leggi a imporsi. Il mancato adeguamento dell’attuale sistema dei pagamenti alle leggi logiche è il segno di un’anomalia che ha come conseguenza la nascita di un disordine che ne altera il corretto funzionamento. L’inflazione e la deflazione sono i disordini che colpiscono i sistemi economici nazionali. Entrambe queste patologie sono dovute alla difformità tra le attuali strutture di pagamento e quelle richieste dalla natura stessa di moneta, reddito e capitale. Ancora una volta il comportamento è irrilevante. Né l’inflazione, né la deflazione sono causate dalle decisioni di agenti economici o istituzioni. La confusione tra inflazione e aumento dell’indice dei prezzi al consumo e l’incapacità delle teorie di spiegare la presenza simultanea di inflazione e di deflazione sono solo due dei problemi che derivano da un’analisi ancora troppo superficiale di disordini che vengono considerati come ‘connaturati’ al sistema. Se i nostri sistemi economici si fondassero sulla continua ricerca dell’equilibrio, saremmo destinati a convivere in eterno ora con l’inflazione, ora con la deflazione. Con la dimostrazione di come si fondano invece su vere e proprie identità, la teoria quantica consente di identificare la natura patologica dell’inflazione e della deflazione nonché di formulare i principi della riforma che permetterebbe di eliminare per sempre entrambe le patologie.

.

6.1 L’inflazione

Per decenni ci si è accontentati di una definizione molto vaga e superficiale di inflazione e se ne sono individuate le cause nel comportamento dei vari agenti economici, privati e istituzionali. Siamo così giunti a una situazione nella quale le teorie vengono piegate ai bisogni di questo o di quel gruppo di potere nell’intento di dimostrare che una tale decisione è potenzialmente causa di un disordine o dell’altro. Gli esperti ci parlano di massa monetaria e del suo adeguamento alla massa dei prodotti. Il tasso d’interesse è considerato lo strumento migliore per correggere gli scompensi tra le due masse e l’esercizio più importante sta nella continua rincorsa di un equilibrio instabile per definizione. Molto spesso il tutto si riduce a quello che i francesi chiamano la petite cuisine, ossia all’aggiunta di un ingrediente per coprire l’eccessiva presenza di un altro. La comprensione della patologia inflazionistica richiede un’analisi ben più approfondita e l’uso di concetti appropriati. La moneta non è materiale e non ha una massa e una velocità di circolazione. L’emissione monetaria è legata alla produzione e la variazione del tasso d’interesse non può provocare uno ‘scollamento’ tra moneta e prodotto.

È solo partendo dalla concezione quantica della moneta e della produzione che l’economia può fornire una nuova spiegazione dell’inflazione. Emessa dalle banche come forma numerica della produzione, la moneta non è né una merce, né un semplice ‘velo’. La sua esistenza è quella delle stesse merci con le quali è associata e con le quali si identifica. Ed è proprio perché la moneta è una forma numerica di cui le merci sono il contenuto, che la produzione può essere definita numericamente. Integrandosi alla produzione, la moneta ne fornisce l’espressione del valore. Simultaneamente, sono le stesse merci prodotte che, in quanto contenuto della moneta, ne definiscono il potere d’acquisto. Se moneta e prodotto non si identificassero, non potrebbero essere espressi né il valore delle merci, né il potere d’acquisto della moneta. Ma allora, venendo a mancare ogni punto di riferimento, sarebbe impossibile definire qualsiasi squilibrio monetario.

L’integrazione tra moneta e produzione fornisce il punto di riferimento necessario. Una volta definito il potere d’acquisto della moneta, diventa possibile parlare delle sue variazioni e cercarne le cause. Ragioniamo in termini di domanda e di offerta globali. Per stabilire se l’una è maggiore o minore dell’altra, e dunque se ci troviamo in situazione inflattiva o deflattiva, dobbiamo poter disporre di un’informazione precisa riguardo il loro iniziale equilibrio. Anzi, dobbiamo addirittura poter conoscere l’espressione numerica della loro identità (potendo mascherare la presenza simultanea di due squilibri opposti – ma, come nel caso della stagflazione, non necessariamente complementari – il solo equilibrio non è infatti un punto di riferimento sufficientemente affidabile). Attribuendo una forma numerica alle merci prodotte, l’emissione monetaria stabilisce appunto un’identità tra domanda globale (i salari monetari, forma iniziale del reddito nazionale) e offerta globale (la produzione reale). Contenitore (numerico) e contenuto (reale) formano un’unità che non può essere modificata nella sostanza, ma che può esserlo nella forma. In particolare, se, pur rimanendo invariata nella sostanza, la domanda globale subisse un incremento nella sua espressione numerica, ne risulterebbe una diminuzione del potere d’acquisto di ogni singola unità monetaria che definirebbe inequivocabilmente la presenza d’inflazione.

.

6.2 La disoccupazione

Gli squilibri monetari interni, causa prima della disoccupazione involontaria, sono dovuti al mancato adeguamento delle strutture monetarie (contabili) adottate attualmente alla natura, numerica e veicolare, della moneta bancaria. A livello nazionale, per esempio, il rispetto della distinzione logica tra moneta, reddito e capitale è di primaria importanza per assicurare l’ordinato funzionamento del sistema economico. La vera neutralità monetaria non consiste nell’assenza di ogni legame tra mondo reale e moneta, ma nella conformità della moneta alle leggi vigenti. È l’ordine monetario il vero obiettivo da perseguire e per farlo è necessario adeguare la struttura contabile dei pagamenti ai principi inerenti alla natura della moneta, del reddito e del capitale, lasciando agli agenti economici la possibilità di agire nella più completa libertà (compatibilmente, è ovvio, con i principi etici che ogni società civile dovrebbe essere tenuta ad adottare).

Il processo di accumulazione del capitale è il cuore della teoria economica, in particolare dello studio della disoccupazione. La sua analisi richiede la previa elaborazione di concetti quali il profitto, l’investimento, il consumo produttivo e l’ammortamento. I grandi economisti del passato avevano capito che il capitale può addirittura acquisire un’esistenza autonoma e contrapporsi agli interessi di coloro la cui attività ne aveva determinato la formazione. In un certo senso, sia il concetto di alienazione, sia quello di produttività fisica del capitale, descrivono una situazione in cui si attribuisce al capitale la facoltà d’influenzare direttamente il risultato dell’attività economica. Tra i due, il concetto di alienazione è sicuramente quello più impressionante. L’idea che la creatura possa ribellarsi al creatore fino a sottometterlo ai propri bisogni è vecchia come l’uomo e non cessa di tormentarlo più o meno inconsciamente. Il problema è quello di sapere se l’alienazione dell’uomo da parte del capitale sia soltanto un fantasma dovuto alla paura e a un diffuso sentimento d’impotenza, o se si tratti piuttosto di un dato di fatto spiegabile oggettivamente dalla scienza economica. Perché mai l’uomo dovrebbe essere costretto, sia pure parzialmente, a lavorare gratuitamente per il capitale? L’alienazione di cui stiamo trattando si riferisce al possibile asservimento dell’uomo al capitale e non al capitalista ed è la spiegazione profonda della disoccupazione. Che i capitalisti siano buoni o cattivi, tanti o pochi, privati o ‘pubblici’ è del tutto irrilevante in questo contesto. Non sono loro a potersi appropriare direttamente del lavoro. La schiavitù, intesa come rapporto diretto di proprietà tra padrone e lavoratore, non è certo il modello su cui reggono i nostri sistemi economici. I rapporti di produzione e di circolazione essendo fondati sullo scambio monetizzato, l’alienazione del lavoro è possibile solo se parte dei beni e servizi prodotti sono sottratti al potere d’acquisto dell’insieme dei titolari di reddito. La sottrazione non va però intesa come appropriazione diretta da parte dell’azienda o del capitale. L’alienazione non può essere spiegata usando una teoria che corrisponde solo parzialmente al funzionamento reale del sistema economico. Supporre che una parte di questo sistema si regga sull’uso della moneta e che l’altra risponda a criteri di appropriazione diretta, significa rinunciare a spiegare il funzionamento reale del sistema economico (in cui tutte le transazioni sono monetarie) e la moderna alienazione del lavoro (che non può essere assimilata alla schiavitù classica).

Tutta la produzione è monetizzata attraverso il pagamento dei salari. La ripartizione dei salari consente poi la formazione delle altre categorie di reddito e l’acquisto dei prodotti da parte dei loro titolari. Se il sistema non soffrisse di nessuna anomalia monetaria, il capitale formato attraverso l’investimento dei profitti e dei risparmi apparterrebbe ad azionisti e risparmiatori o, come capitale sociale, all’insieme indistinto dei residenti del paese. Affinché parte delle merci prodotte vengano loro sottratte, è necessario che, pur essendo pagati per il loro lavoro, parte dei lavoratori percepiscano come remunerazione una moneta svuotata del suo contenuto reale. Se il sistema contabile dei pagamenti funzionasse nel pieno rispetto delle leggi della moneta e della triplice distinzione tra moneta, reddito e capitale, questo non potrebbe mai accadere e il concetto di alienazione non troverebbe applicazione pratica. Purtroppo, l’adeguamento della struttura contabile alla natura della moneta è ancora solo parziale; ciò rende possibile la duplicazione del reddito investito nella formazione del capitale fisso e la conseguente costituzione di questo capitale come proprietà definitiva dell’insieme delle aziende depersonificate (ossia delle aziende che assurgono a vita propria, indipendentemente dagli azionisti cui appartengono).

Le difficoltà inerenti allo studio del capitale spiegano perché la teoria economica stenti tanto a fornire un’analisi soddisfacente della crisi e a proporre dei rimedi efficaci. Tuttavia, non vi è altra strada da percorrere se si vuole arrivare a capire a fondo i meccanismi dei nostri sistemi economici. Il cammino, già in parte tracciato dai grandi autori, è arduo, ma la meta è alla nostra portata. Se l’economia avesse come obiettivo l’analisi del comportamento umano in campo economico, essa apparterrebbe alla categoria delle cosiddette scienze umane e non sarebbe in grado di fornire alcuna risposta definitiva agli interrogativi riguardanti gli squilibri che colpiscono il sistema economico. Essendo imputabili al comportamento, gli squilibri non potrebbero neppure essere definiti come tali (chi potrebbe infatti decidere se un comportamento è più o meno ‘normale’ degli altri?) e la teoria economica sarebbe destinata a doversi costantemente adeguare ai cambiamenti, spesso imprevedibili, degli agenti economici. Se, come per la fisica, l’oggetto d’indagine della scienza economica fosse la natura (in particolare quella umana), potremmo abbandonare subito la speranza di arrivare un giorno a conoscerlo fin nella sua stessa essenza. L’analisi monetaria della produzione e della circolazione ci fornisce, invece, gli elementi per la costruzione di una vera e propria teoria macroeconomica fondata su criteri obiettivi. L’oggetto d’indagine di questa teoria non è il comportamento economico degli individui o dei loro gruppi, ma la struttura monetaria che costituisce il sistema-quadro all’interno del quale gli individui e i loro gruppi operano. Il sistema monetario è retto da un insieme di leggi la cui natura è eminentemente logica e alle quali la struttura contabile dei nostri sistemi bancari deve adattarsi. Così concepita, la teoria economica appartiene al novero delle scienze esatte, anche se il suo campo d’indagine è ben più modesto di quello delle sue quotate consorelle. D’altronde è proprio perché il suo obiettivo è limitato che è ragionevole pensare che si potrà presto arrivare ad averne una conoscenza approfondita e univoca: essendo stato creato dall’uomo, il sistema economico non è al di fuori della portata delle sue capacità cognitive.

.

  1. La soluzione

L’analisi positiva schiude le porte all’analisi normativa e diventa possibile elaborare una riforma del sistema dei pagamenti nazionali che consente il passaggio dall’attuale disordine all’ordine. In un futuro ormai non lontano riusciremo a sbarazzarci dell’inflazione e della deflazione grazie a un sistema dei pagamenti che rispetterà la natura della moneta ed eviterà di confonderla con reddito e capitale. L’analisi positiva permette di definire le leggi logiche dell’economia; l’analisi normativa stabilisce le modalità da seguire affinché la pratica contabile sia conforme alle leggi logiche. La riforma che dovrà essere applicata non riguarda le operazioni effettuate dai diversi agenti economici, ma la struttura contabile attraverso la quale le operazioni verranno registrate. L’origine delle anomalie è la discordanza tra struttura contabile e leggi macroeconomiche; l’instaurazione dell’ordine avverrà quindi adeguando la struttura contabile alle leggi logiche del sistema economico.

.

7.1 Il primo e il secondo dipartimento

La natura veicolare della moneta bancaria è la conseguenza necessaria della contabilità a partita doppia. Oltre a essere un’unità di conto puramente numerica, la moneta è un flusso che veicola i pagamenti attraverso un movimento ondulatorio in cui gli agenti economici coinvolti sono al tempo stesso accreditati e addebitati. Logica vorrebbe che questa natura della moneta fosse rispecchiata nell’apparato contabile usato dalle banche per registrare i pagamenti. Ciò avverrebbe se le banche tenessero una contabilità di tutti i flussi o, meglio, dei loro risultati, perché i flussi non possono essere veramente contabilizzati (ogni registrazione contabile è una ‘fotografia’ che fissa il movimento attribuendogli un’espressione numerica). Bisognerebbe cioè che le banche introducessero una distinzione contabile tra due dipartimenti, quello monetario o delle emissioni (I) e quello finanziario o del risparmio (II). Nel primo dipartimento andrebbero registrate tutte le emissioni di moneta implicate nei vari pagamenti, mentre nel secondo si registrerebbero i risultati, in reddito, di questi stessi pagamenti.

Lo scopo della distinzione tra dipartimento delle emissioni e dipartimento del risparmio è di creare sintonia tra analisi concettuale e pratica bancaria, evitando l’erroneo sovrapporsi di intermediazione monetaria e intermediazione finanziaria. Sebbene la formazione del reddito sia sempre accompagnata da una creazione di moneta, è sbagliato sostituire l’una all’altra. La moneta è un semplice attivo-passivo che non può finanziare nessuna acquisto. L’attuale sistema dei pagamenti non rispetta però questa esigenza logica e consente alle banche di sovrapporre una mediazione all’altra, finanziando parte degli acquisti dei loro clienti attraverso una pura creazione monetaria. Per evitare questo rischio inflazionistico è sufficiente introdurre una duplice registrazione contabile dei pagamenti che ne separi la componente monetaria da quella finanziaria.

.

7.2 Il terzo dipartimento

All’origine dell’attuale disordine monetario vi è il fatto che il profitto investito nella produzione di beni strumentali rimane disponibile sul mercato finanziario sotto forma di depositi bancari. La macroeconomia quantica dimostra che il profitto investito si forma sul mercato dei prodotti ed è speso su quello dei servizi produttori: la formazione del profitto è compresa nella spesa dei salari, mentre la spesa del profitto è inclusa nel pagamento dei salari. Formazione e spesa del profitto coincidono nel tempo quantico, per cui se ne inferisce che il profitto è già interamente speso al momento della sua formazione. Logica vorrebbe che il profitto speso sul mercato del lavoro non potesse più esserlo di nuovo su quello dei prodotti. Nell’attuale sistema dei pagamenti nazionali questa esigenza logica non è purtroppo rispettata e il profitto investito alimenta una domanda supplementare che è inevitabilmente di natura inflazionistica.

L’investimento del profitto nella produzione di beni strumentali porta alla sua trasformazione in capitale fisso. Perché i beni-capitale appartengano all’insieme indifferenziato dei titolari di reddito, è necessario che venga mantenuto il legame tra beni strumentali e capitale fisso. Ciò è possibile soltanto a condizione di disporre di una struttura contabile che consenta di sottrarre il profitto investito al mercato finanziario. In assenza di tale meccanismo contabile, si assiste a una sostituzione tra i beni-capitale (di cui si appropria l’azienda de-personificata) e i depositi bancari corrispondenti al profitto investito. Le aziende, invece di agire come semplici intermediari, si impossessano del capitale fisso, di cui sottraggono la proprietà economica ai titolari di reddito attraverso l’aumento inflazionistico delle unità monetarie. Il capitalismo attuale è precisamente un sistema in cui l’investimento del profitto genera uno scarto inflazionistico che, diminuendo il potere d’acquisto della moneta, sottrae il capitale fisso ai titolari di reddito e porta alla formazione del capitale patologico. Per evitare la degenerazione del sistema è sufficiente elaborare una struttura contabile che permetta di salvaguardare il profitto investito in un dipartimento del capitale fisso, sottraendolo in modo definitivo al mercato finanziario.